venerdì 25 settembre 2009

come ho perso la guerra



Autore
Filippo Bologna
Titolo
Come ho perso la guerra
Edizione
Fandango, Roma, 2009 , pag. 280, cop.fle., dim. 15x21x1,8 cm , Isbn 978-88-6044-114-0
Lettore
Flo Bertelli, 2009
Classe
narrativa italiana

Il castello

Bisogna che lo dica subito così non ci penso più. Vivo in un castello. O meglio, ci vivevo. Con i merli, la torre che svetta superba sui tetti rossi, i piccioni, le mura e tutti i requisiti minimi che deve avere un castello per essere tale. Vivere in un castello vuol dire vivere una condizione di eterno anacronismo, che non può essere sanato con nessun condono temporale, e che non poteva non produrre qualche — seppur minimo spostamento della mia psiche rispetto agli assi cartesiani della storia. Nascere in un luogo morto, venire alla luce al buio, aprire gli occhi al chiuso; svegliarsi in un sepolcro, ecco cosa significa vivere in un castello. Niente di magico, niente di principesco, nelle facce accigliate degli antenati che ti scrutano dai loro ritratti fuligginosi. Ed essere l'unico maschio. L'ultimo rampollo depositario di un cognome, di una storia, di una tradizione. Il germoglio più tenero in punta di ramo, quello più esposto al rischio delle gelate, basta una brinata d'aprile e addio raccolto. Contiamo su di te perché si perpetui la razza, ammoniscono severi gli avi mentre attraverso a passo svelto i corridoi bui, infilando gallerie di ritratti bisunti a capo basso, per evitare gli sguardi inquisitori del parentame. Mi raccomando! T'insegue la voce della carne della tua carne da una stanza all'altra: Ricorda che hai in mano il nostro avvenire. Altro che in mano, nelle gonadi ce l'ho il vostro avvenire. No, non contate su di me.
Ma come si fa a costruire un castello nel Novecento? Nel secolo della velocità, delle masse, della guerra totale, dell'uomo sulla luna e del grande balzo in avanti? Solo un necrofilo - o un reazionario — potrebbe concepire un edificio già morto agli albori del secolo più moderno della storia. Perché un castello non è solo un edificio ma è anche un concetto. Un concetto tramontato da secoli, sprofondato nei recessi della storia assieme alla ridicola società cavalleresca che abitava le sue stanze. Provate per un attimo a uscire dalla grettezza dei vostri condomini, dallo squallore delle vostre palazzine, dalla pretenziosità delle vostre villette, e immaginate di abitarci voi, in un castello. Non c'è niente di romantico, niente di favoloso, levatevelo dalla testa. È come abitare nel bozzolo essiccato di una crisalide. È una cosa orribile. Eppure è sublime. E non c'è affatto contraddizione, perché non si può che provare orrore ed estasi per le forme morenti. Se siete un pittore di nature morte sapete di cosa parlo.
Io ho fatto il massimo, ve lo giuro, il massimo del minimo d'accordo, ma pur sempre il massimo di quello che si poteva fare. Converrete con me che non mi si poteva certo chiedere di essere un uomo moderno. "Sei un uomo ottocentesco!" mi rinfacciavano le fidanzate lasciandomi (anche quando le lasciavo io). Sfido io. E mi è andata bene. Potevo a ragione essere un uomo trecentesco, o peggio ancora, duecentesco. Sono un passatista all'avanguardia, un conservatore progressista, un retrivo alla moda. Dai, alla fine poteva andare peggio.
Quello che ancora non mi capacito, è cosa passasse nella testa del mio bisnonno Terenzio quando decise che piuttosto si sarebbe rovinato, ma avrebbe costruito un castello. Fu lui che dette inizio a tutto e fece deragliare il treno del tempo dai binari. E quando ebbe l'illusione di aver fermato quel treno innalzando il castello contro il volere della storia, fra tutti fu forse il passeggero più a disagio. Perché una casa non è di chi la edifica ma di chi viene dopo, e la abita per generazioni. Nonostante fosse stato Terenzio a volere quella casa, a volerla con una determinazione febbrile che lo consumò e al tempo stesso lo tenne in vita.
Per costruire quel castello vennero muratori, carpentieri e artigiani da ogni dove, vennero scalpellini da Rapolano, pittori da Siena e decoratori da Orvieto. Vennero architetti da Roma e giardinieri da Firenze. Si lavorò per anni. Venti, trenta. Forse più. Si lavorò finché non finirono i soldi e il mio bisnonno non ebbe dilapidato tutta la sua immensa fortuna. I creditori più impazienti dovettero pazientare, per l'antico rispetto, o timore, fate voi, per la nostra famiglia e per quell'omone fiero che frustava i contadini. E tutti vennero pagati, fino all'ultimo centesimo. Finché i conti non furono saldati e i soldi finiti. Con l'ultima moneta si pagò l'ultimo artigiano. Restava un conto in banca asciutto e un castello eretto. Solo allora il bisnonno Terenzio, che era già morto da quando era morto Fede, si sentì davvero libero di morire. Il risultato giudicatelo voi, non voglio essere io a discuterne. L'architettura è un fatto. Anzi, è un oggetto. E gli oggetti non si discutono. Esistono o non esistono. Ci sono o non ci sono. Il castello è lì, sotto gli occhi di tutti. C'è.
Sì, c'è, ma prima non c'era... dicono molti con un sorrisino carico di malizia. La questione è spinosa e nondimeno oziosa. E ha tolto il sonno a più di una persona, che poi sarei io.
Perché i paesani tutti, ovvero contadini, artigiani, commercianti, professionisti e feudatari da quattro ettari che vivono da queste parti, e anche i parenti, più o meno stretti, il castello non l'hanno mai digerito. Ci ho pensato su parecchio, ho elaborato teorie assai complesse, anche troppo, perché in fin dei conti era piuttosto semplice.
Invidia.

venere scorpionica


(clicca sopra la foto )

Un'incredibile resistenza si ritrova
nell'Essenza dello Scorpione.
Un'inaccettabile e torbida sensualità
ai limiti dell'umana comprensione.
Aggressività irresistibile
e freddezza da predatore
che attende nell'ombra.
Combustione.
Lasciatevi andare alle vostre pulsioni
Zitti e ascoltate.
Venite a scoprire cosa vi riserva il fato.
Atomica fissione.

problema de tu mente

http://www.youtube.com/watch?v=_rTq6lDtCsU

farsi amare


Il mezzo migliore
per farsi amare è di amare ;
essere amati è il mezzo
per vedere seguiti
i propri esempi,
ascoltate le proprie parole,
efficaci i propri consigli,
credute le proprie affermazioni,
adottate le proprie credenze
Però….
Immagina le meraviglie
che conosceremmo,
se credessimo nelle cose
in cui non crediamo

Lucretia Borchia


Odio che mi si chieda di spiegare come “funziona” il film,il blog, internet, cosa avevo in mente, e così via. Dal momento che si muove su un livello non-verbale, l’ambiguità è inevitabile. Ma è l’ambiguità di ogni arte, di un bel pezzo musicale o di un dipinto.

”Spiegarli” non ha senso, ha solo un superficiale significato “culturale”
buono per i critici e gli insegnanti
che devono guadagnarsi da vivere.

percettibilità


la percezione
è tanto immaginaria, quanto l’immaginazione è basata
sulla percezione.

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Quasi tutto ci può fornire lo spunto
per inventare una realtà. Il nostro mondo
è immaginazione e fantasia.

Woman in life


Più dei tramonti,
più del volo di un uccello,
la cosa meravigliosa in assoluto è una donna in rinascita

canto di Proserpina


Un altro aspetto delle comunità virtuali è quello per cui quando le informazioni sono digitalizzate,
collegate e trasmesse in rete si può creare una priorità del circuito di distribuzione dell’informazione
rispetto sull’informazione stessa.


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Il passaggio dalla società dello spettacolo a una società delle telecomunicazioni, che fonda la sua economia sulla diffusione interattiva della merce-informazione, ha tra le sue caratteristiche il fatto che sia il prodotto che il messaggio non sono una specifica esclusiva di chi ha la proprietà del mezzo, ma vengono forniti dall’utente stesso.


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In questa società basata sulla simulazione di spazi virtuali (dentro i quali si svolgono il lavoro e le transazioni quotidiane, oltre che le attività ludiche e creative) la merce si trasforma sulla base delle informazioni che vengono fornite dall’utente, delle tracce lasciate dal suo passaggio e della sua presenza in tempo reale negli spazi virtuali.


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Inoltre il valore stesso della merce aumenta proporzionalmente al numero di utenti che vi si collegano, di modo che l’utente non è più soltanto un soggetto che fa uso degli spazi virtuali, ma è contemporaneamente un oggetto-merce nei confronti di ogni altro utente connesso in rete.

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Questi elementi possono produrre delle libertà notevoli nel campo della comunicazione sociale,
così come possono, a seconda degli scopi,
trasformarsi in trappole per controllare e limitare le libertà individuali.

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Quando l’utente diventa merce,
il rischio è che la strategia del capitale si adoperi per controllarne l’identità
in modo che sia facilmente vendibile.