Autore
Filippo Bologna
Titolo
Come ho perso la guerra
Edizione
Fandango, Roma, 2009 , pag. 280, cop.fle., dim. 15x21x1,8 cm , Isbn 978-88-6044-114-0
Lettore
Flo Bertelli, 2009
Classe
narrativa italiana
Il castello
Bisogna che lo dica subito così non ci penso più. Vivo in un castello. O meglio, ci vivevo. Con i merli, la torre che svetta superba sui tetti rossi, i piccioni, le mura e tutti i requisiti minimi che deve avere un castello per essere tale. Vivere in un castello vuol dire vivere una condizione di eterno anacronismo, che non può essere sanato con nessun condono temporale, e che non poteva non produrre qualche — seppur minimo spostamento della mia psiche rispetto agli assi cartesiani della storia. Nascere in un luogo morto, venire alla luce al buio, aprire gli occhi al chiuso; svegliarsi in un sepolcro, ecco cosa significa vivere in un castello. Niente di magico, niente di principesco, nelle facce accigliate degli antenati che ti scrutano dai loro ritratti fuligginosi. Ed essere l'unico maschio. L'ultimo rampollo depositario di un cognome, di una storia, di una tradizione. Il germoglio più tenero in punta di ramo, quello più esposto al rischio delle gelate, basta una brinata d'aprile e addio raccolto. Contiamo su di te perché si perpetui la razza, ammoniscono severi gli avi mentre attraverso a passo svelto i corridoi bui, infilando gallerie di ritratti bisunti a capo basso, per evitare gli sguardi inquisitori del parentame. Mi raccomando! T'insegue la voce della carne della tua carne da una stanza all'altra: Ricorda che hai in mano il nostro avvenire. Altro che in mano, nelle gonadi ce l'ho il vostro avvenire. No, non contate su di me.
Ma come si fa a costruire un castello nel Novecento? Nel secolo della velocità, delle masse, della guerra totale, dell'uomo sulla luna e del grande balzo in avanti? Solo un necrofilo - o un reazionario — potrebbe concepire un edificio già morto agli albori del secolo più moderno della storia. Perché un castello non è solo un edificio ma è anche un concetto. Un concetto tramontato da secoli, sprofondato nei recessi della storia assieme alla ridicola società cavalleresca che abitava le sue stanze. Provate per un attimo a uscire dalla grettezza dei vostri condomini, dallo squallore delle vostre palazzine, dalla pretenziosità delle vostre villette, e immaginate di abitarci voi, in un castello. Non c'è niente di romantico, niente di favoloso, levatevelo dalla testa. È come abitare nel bozzolo essiccato di una crisalide. È una cosa orribile. Eppure è sublime. E non c'è affatto contraddizione, perché non si può che provare orrore ed estasi per le forme morenti. Se siete un pittore di nature morte sapete di cosa parlo.
Io ho fatto il massimo, ve lo giuro, il massimo del minimo d'accordo, ma pur sempre il massimo di quello che si poteva fare. Converrete con me che non mi si poteva certo chiedere di essere un uomo moderno. "Sei un uomo ottocentesco!" mi rinfacciavano le fidanzate lasciandomi (anche quando le lasciavo io). Sfido io. E mi è andata bene. Potevo a ragione essere un uomo trecentesco, o peggio ancora, duecentesco. Sono un passatista all'avanguardia, un conservatore progressista, un retrivo alla moda. Dai, alla fine poteva andare peggio.
Quello che ancora non mi capacito, è cosa passasse nella testa del mio bisnonno Terenzio quando decise che piuttosto si sarebbe rovinato, ma avrebbe costruito un castello. Fu lui che dette inizio a tutto e fece deragliare il treno del tempo dai binari. E quando ebbe l'illusione di aver fermato quel treno innalzando il castello contro il volere della storia, fra tutti fu forse il passeggero più a disagio. Perché una casa non è di chi la edifica ma di chi viene dopo, e la abita per generazioni. Nonostante fosse stato Terenzio a volere quella casa, a volerla con una determinazione febbrile che lo consumò e al tempo stesso lo tenne in vita.
Per costruire quel castello vennero muratori, carpentieri e artigiani da ogni dove, vennero scalpellini da Rapolano, pittori da Siena e decoratori da Orvieto. Vennero architetti da Roma e giardinieri da Firenze. Si lavorò per anni. Venti, trenta. Forse più. Si lavorò finché non finirono i soldi e il mio bisnonno non ebbe dilapidato tutta la sua immensa fortuna. I creditori più impazienti dovettero pazientare, per l'antico rispetto, o timore, fate voi, per la nostra famiglia e per quell'omone fiero che frustava i contadini. E tutti vennero pagati, fino all'ultimo centesimo. Finché i conti non furono saldati e i soldi finiti. Con l'ultima moneta si pagò l'ultimo artigiano. Restava un conto in banca asciutto e un castello eretto. Solo allora il bisnonno Terenzio, che era già morto da quando era morto Fede, si sentì davvero libero di morire. Il risultato giudicatelo voi, non voglio essere io a discuterne. L'architettura è un fatto. Anzi, è un oggetto. E gli oggetti non si discutono. Esistono o non esistono. Ci sono o non ci sono. Il castello è lì, sotto gli occhi di tutti. C'è.
Sì, c'è, ma prima non c'era... dicono molti con un sorrisino carico di malizia. La questione è spinosa e nondimeno oziosa. E ha tolto il sonno a più di una persona, che poi sarei io.
Perché i paesani tutti, ovvero contadini, artigiani, commercianti, professionisti e feudatari da quattro ettari che vivono da queste parti, e anche i parenti, più o meno stretti, il castello non l'hanno mai digerito. Ci ho pensato su parecchio, ho elaborato teorie assai complesse, anche troppo, perché in fin dei conti era piuttosto semplice.
Invidia.